Dalle macerie della «New Economy» al successo di YouTube e MySpace. Un percorso di lettura a partire dal volume «Zero Comment» dello studioso olandese Geert Lovink dedicato all'esplosione dei blog e del social networking su Internet
La grande partita a risiko per il controllo della rete può essere meglio compresa a partire della presa di parola della forza-lavoro che produce manufatti digitali. Un fenomeno che oscilla tra adesione al pensiero neoliberista e embrionali processi di autorganizzazione.
Benedetto Vecchi
La polverizzazione delle imprese dot-com nel 2001 non ha lasciato solo macerie. Piuttosto ha alimentato la proliferazione esponenziale della cosiddetta blogsfera, cioè di quei siti Internet che consentono una interattività in tempo reale tra chi scrive e chi legge, consentendo così il commento al testo «postato». Nella maggioranza degli oltre cento milioni di blog i testi presentano però il perentorio messaggio zero comment, elemento che smentisce proprio quella tanto decantata interattività del cyberspazio. Ed è proprio a partire da questa aporia tra la retorica dell'interattività e la sua assenza che prende le mosse il libro di Geert Lovink Zero comment (Bruno Mondadori, pp. 184, euro 14).
Geert Lovink è un veterano della network culture. Con i suoi libri ha contribuito a una vera e propria «storia del presente» digitale. È stato infatti l'ispiratore di Nettime, una delle mailing list più interessanti degli anni Novanta; è stato inoltre testimone partecipe della cosiddetta media art; ha altresì analizzato puntualmente l'euforia della new economy, con la conseguente «depressione» derivata della sua crisi. La sua analisi della blogsfera è quindi in piena linea di continuità con la sua attività di media theorist, come talvolta ama definirsi.
In questo libro sono analizzati criticamente alcuni luoghi comuni dei blog. L'altro paradosso riguarda la rappresentazione della blogsfera come esempio di «comunicazione trasparente»: per Lovink, i blog sono invece «diari pubblici», cioè una forma di scrittura che annota fatti e pensieri relativi alla propria condizione esistenziale meritevoli, per chi li scrive, di essere «pubblicizzati» perché paradigmatici di una realtà condivisa da altri. Il fatto che i blog possano essere considerati «diari pubblici» ha costituito una potente fonte della loro legittimazione ideologica, ma questo non cancella il fatto che, come afferma lo studioso olandese, alimentano il rumore di fondo del ciberspazio e dalla messa in rete di opinioni fondate quasi sempre su pregiudizi e sentimenti rancorosi verso un mondo percepito quasi sempre come «cinico e baro». L'analisi che egli fa del ruolo svolto dai blog nella crescita dell'intolleranza e della xenofobia antislamica nella società olandese è infatti propedeutica all'esposizione della sua tesi che i blog generalmente sono lo strumento attraverso il quale ha preso corpo, si è sviluppata e ha acquisito un potere di condizionamento della discussione pubblica una vera e propria weltanshauung populista e conservatrice.
Condividere e partecipare
L'analisi critica della blogsfera fanno di Zero comments uno dei testi migliori dedicati alla vita nel cyberspazio, assieme all'enciclopedico La ricchezza della rete di Yochai Benkler (Università Bocconi Editore) e a Cultura convergente di Henry Jenkins (Apogeo). Ma l'aspetto più pregnante di questo volume è da cercare nell'analisi che l'autore svolge sulla realtà emersa dalla crisi delle new economy, che ha visto uno spostamento significativo verso il social networking, di cui la blogsfera è l'espressione più problematica, mentre quella più seducente è da cercare nelle esperienze di YouTube, Facebook, Myspace.
Il social networking è dunque l'angolo prospettico da cui guardare la realtà sociale dentro e fuori lo schermo. Da una parte, infatti, il social networking esprime i cambiamenti nella prestazione lavorativa, ma anche i mutamenti nella concezione della proprietà privata e nell'organizzazione produttiva. Dall'altra è il contesto in cui si manifestano le forme di resistenza e i nodi problematici della critica al capitalismo contemporaneo. Le parole chiave per accedere alla sua comprensione sono condivisione e proprietà intellettuale.
Condividere è il verbo che ha accompagnato Internet sin dal suo debutto ed è stato subito fatto proprio da chi riteneva il web uno spazio alieno alle logiche mercantili dominanti al di fuori dello schermo. La condivisone del sapere, della conoscenza, delle immagini è stato anche l'ordine del discorso attorno al quale ha preso il via la critica alla proprietà intellettuale. Un'attitudine alla cooperazione che subisce una «torsione mercantilista» quando il web è individuato come un luogo dove fare affari. È il tempo dei portali e del sogno di trasformare gli internauti in comunità di consumatori fedeli alle imprese che riescono a intercettarli nel loro nomadismo digitale.
Depressione da internet
Il social networking si impone nel cyberspazio quando le imprese della net-economy deflagrano, bruciando in pochi mesi centinai di miliardi di dollari investiti da spregiudicati «capitalisti di ventura». Sarebbe tuttavia errato considerate il social networking un compiuto e riproducibile nuovo modello di business che fiorisce sulle macerie della new economy. YouTube, Facebook, MySpace sono la via di fuga dalla cosiddetta internet depression che rivendica al web la caratteristica di medium per una socializzazione dei propri stili di vita e consumi culturali al di fuori però della ferree leggi dell'economia di mercato. Si badi bene, però, presentare quei siti non come come prototipi di una possibile attività produttiva, ma solo come espressione di un uso ludico e relazionale della rete, non vuol dire che il social networking è da interpretare come esito di una critica al capitalismo. Semmai è espressione di una «logica del dono» che offre un riparo e il contesto dove ripristinare un legame sociale altrimenti cancellato dall'economia di mercato.
Quando Google ha acquisito YouTube molti analisti hanno discettato su come l'impresa di Larry Page e Sergej Brin potesse trasformare quel sito in una fonte di profitto, viste le difficoltà che avrebbe e ha incontrato nei rapporti con altre imprese che già rivendicavano i propri diritti di proprietà intellettuale sul materiale video, musicale messo in rete da centinaia di milioni di utenti indifferenti, se non ostili alla richiesta di rispettare il copyright sui quei file liberamente e gratuitamente condivisi su YouTube. Alla fine, gli unici affari che la società di Mountain View è riuscita a fare hanno riguardato il vecchio e profittevole core business delle inserzioni pubblicitarie. Lo stesso si può dire con Rudolph Murdoch con MySpace o la grande partita a risiko attorno alla possibile acquisizione del motore di ricerca Yahoo! da parte di Microsoft.
Innovare senza investire
Nel volume di Don Tapscott e Anthony D. Williams Wikinomics (Rizzoli-Etas) sono presentati molti esempi di social networking che hanno cambiato la rete, ma in ben pochi casi si tratta di siti e esperienze che si sono tradotte in ben pochi casi in modelli di business. È certo, però, che le grandi corporation considerano il social networking il luogo dove attingere per innovare tanto i loro processi lavorativi che le merci che producono. Una fonte di innovazione spesso gratuita, dato che molti siti, programmi informatici, contenuti prodotti all'interno di esperienze di social networking sono open e non sottostanno quindi alle norme dominanti sulla proprietà intellettuale. Siamo dunque giunti alla seconda parola chiave per comprendere ciò che sta accdendo in rete, la proprietà intellettuale.
Anche in questo caso sono all'opera due tendenze apparentemente contraddittorie. Da una parte l'industria discografica, cinematografica e del software proprietario compiono una costante opera di pressione sui governi nazionali e sugli organismi sovranazionali - Wto, Unione europea, Nafta e Asean - affinché modifichino le legislazioni nazionali e le norme internazionali a loro favore. Allo stesso tempo, all'interno della Wipo, l'organizzazione delle nazioni unite relativa alla proprietà intellettuale, auspicano un modello «misto» tra sistemi proprietari e open sul diritto d'autore e i brevetti. Oppure danno vita a progetti, come quello della Microsoft, che timidamente si aprono alla logica dei programmi informatici open source. Tutto ciò allo scopo di regolamentare i comportamenti nel cyberspazio e favorire tuttavia processi di innovazione organizzativa e di prodotto all'insegna di una cooperazione sociale basata sulla reciprocità e senza finalità direttamente produttive.
Ma se queste sono le tendenze del capitale digitale, l'invito di Geert Lovink a guardare al cyberspazio dal punto di vista della forza-lavoro che produce manufatti digitali non solo è condivisibile, ma rivela la sua radicale politicità se si misura e entra in rotta di collisione con il populismo neoliberista presente nella rete e di cui i blog possono essere considerati l'espressione più significativa. Si può certo discutere a lungo, come fa lo studioso Richard Florida, sull'eccedenze di competenze e di savoir faire della «classe creativa» da rinvestire socialmente (L'ascesa della nuova classe creativa e La classe creativa spicca il volo, entrambi di Mondadori); oppure sulla tendenziale trasformazione dei «lavoratori immateriali» in classe come argomenta lo studioso australiano Wark McKenzie (Un manifesto hacker, Feltrinelli). Ciò che è però assente in queste analisi è una ricognizione sulle condizioni di lavoro, salariali, di reddito, della ambivalente precarietà di questa forza-lavoro, a cui è richiesta la messa al lavoro delle sua intelligenza collettiva e al tempo stesso conosce processi di immiserimento della sua prestazione lavorativa a ogni innovazione nel sistema delle macchine. Da qui la crescita significativa di siti in cui la presa di parola di questa forza-lavoro oscilla continuamente da embrionali processi di autorganizzazione e populismo neoliberista.
Tra populismo e rivolta
L'esplosione della blogsfera va quindi intesa come la rappresentazione, seppur caotica, di un processo di soggettivazione ambivalente, ma tuttavia aperto alla politicizzazione dei rapporti sociali capitalistici dentro e fuori lo schermo. È certo un processo all'insegna di una desolante autoreferenzialità evidenziata da quel zero comment segnalato da Geert Lovink. Ma non si può non concordare con l'invito dello studioso olandese a immaginare e sviluppare un ordine del discorso affinché i commenti perdano, quando presenti, la loro matrice populista e si aprano a processi di autorganizzazione e di conflitto contro chi esercita il potere sulla vita dentro e fuori lo schermo.
Manifesto, 19 aprile 2008, p. 12
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