Intervista allo studioso Geert Lovink, che traccia i contorni di una teoria generale dei blog e dei network sociali
Nicola Bruno
Da anni porta avanti un progetto di critica della Rete «impegnata e informata, utopica e negativa», prendendo posizione contro l'immagine di Internet veicolata da «consulenti venditori di fumo» e «giornalisti cinici e populisti». Dopo aver analizzato le prime comunità nate attorno alle liste di discussione, Geert Lovink torna con un nuovo libro (Zero Comments, in uscita a giugno negli Usa) in cui traccia i contorni di una teoria generale dei blog e dei network sociali. Andando al di là di ogni retorica, lo studioso olandese parla dell'emergere di una cultura narcisista, decadente e nichilista, destinata a sgretolare un'industria dell'informazione e dell'intrattenimento ormai al capolinea.
Innanzitutto, puoi spiegarci perché consideri il blogging una pratica nichilista? Ti riferisci all'attuale contesto storico (post-modernità nei paesi occidentali) o a uno specifico sviluppo del software sociale?
Il blogging è la forma contemporanea di auto-pubblicazione. L'aspetto nichilista emerge quando confrontiamo questo tipo di comunicazione con quello dei media mainstream che ancora rivendicano di rappresentare il loro pubblico. I blogger non rappresentano altro che se stessi. E in questo senso livellano, azzerano le strutture centralizzate di senso. Le autorità, dal Papa ai partiti alla stampa, non influenzano più la nostra visione del mondo. Sempre più persone si allontanano dai «vecchi media» quando sono alla ricerca di senso, informazione, intrattenimento. Niente di scioccante, se non per i giornalisti dell'industria broadcast che restano turbati da questa ovvietà come se fosse un tentativo di delegittimarli.
A proposito delle relazioni con i media mainstream, affermi che i blog non influiscono sulla notiziabilità (gatekeeping), ma sono solo uno strumento di monitoraggio (gatewatching). Non ti sembra però che le cose stanno cambiando con il bookmarking sociale e il giornalismo dal basso?
I servizi di cui parli non generano un traffico elevato, né tantomeno hanno un forte impatto. Il social bookmarking e i siti di informazione alternativi sono marginali in confronto ai circa 100 milioni di blogger sparsi per il mondo e alle decine di milioni di utenti di Flickr, MySpace, YouTube. E' risaputo, ad esempio, che solo una minoranza di iscritti a Digg è responsabile della maggior parte dei post. Una tendenza simile a quella della «blog elite» che si linka vicendevolmente per ottenere traffico e attenzione da parte dei media. Non bisogna pensare a questo ambiente come se fosse esente dalla manipolazione: la decentralizzazione non comporta necessariamente democrazia o un orientamento progressista. La cultura blog negli Usa è soprattutto maschile, bianca, conservatrice.
In tutto ciò è interessante posizionare Indymedia. Il progetto aveva funzionalità interessanti già nel 2000. Sfortunamente, però, ha puntato a diventare un'agenzia stampa, un portale web, come se non potesse affrontare il suo più vasto aspetto comunitario. Indymedia avrebbe ottenuto più successo lasciando perdere la linea Chomsky-WSF, l'approccio politically-correct verso le Ong, e si fosse lasciata coinvolgere dalla ricca varietà delle sue prime tribù. E' davvero un peccato che ora dipendiamo da Rupert Murdoch e Google. E non disponiamo di un network sociale del tutto open source e no-profit.
Nel tuo ultimo saggio «Blogging, the nihilist impulse» scrivi che i blogger non sono stati capaci fino ad ora di trovare un'alternativa all'ideologia mainstream. Credi che il modello «top-down» sia destinato a durare a lungo?
I blog non hanno messo radici nel movimento sociale progressista. Sono critici verso i mass-media americani, ma la tendenza generale è piuttosto conservatrice-liberale. Ad ogni modo va riconosciuto loro il merito di aver aperto il panorama dei media in un modo che a Internet non era ancora riuscito. Fino a questo momento i media top-down non sono stati in pericolo reale, ma ora i giornali cominciano a rischiare di perdere entrate pubblicitarie. Certo, avremo la Tv e i film di Hollywood ancora per molto tempo a venire. Ma può anche darsi che i blog non siano il mezzo ideale per dare una visibilità di massa ai «nuovi media».
Come in ogni comunità, anche nella blogosfera c'è molta autoreferenzialità. Tu fai l'esempio del blogroll, uno strumento progettato per esprimere solo accordo. Come si può superare questo problema e favorire una maggiore diversità? Sviluppando migliori architetture partecipative?
Non sarebbe una cattiva idea tralasciare per un momento i discorsi sulle comunità e, per dirla con Max Weber, muoverci dalla Gemeinschaft (comunità) alla Gesellschaft (società). Per fare ciò bisogna passare attraverso il software. Le architetture hanno ripercussioni su altre strutture discorsive e sulle relazioni sociali: per questo non dovremmo lasciare il software solo nelle mani dei geek, ma diffondere le competenze tecnologiche tra altri gruppi della società. Ciò di cui abbiamo bisogno sono programmatori agonistici, se posso fare un riferimento a Chantal Mouffe (autrice di The Democratic Paradox, ndr). Dobbiamo poi comprendere meglio l'importanza degli early-adopter. I milioni di utenti che vengono dopo non hanno la possibilità di cambiare la cultura dei blog o l'estetica di Second Life. E' davvero un problema non poter linkare ai propri avversari o a chi non ci piace. Il risultato di tutto ciò è un comportamento collettivo conformista e banale. Certo, si tratta di un fenomeno naturale, ma il problema è che Internet è qui per restare. E' per questo che non possiamo abbassare lo sguardo sul software come se fosse un dettaglio. Il software struttura la società del futuro.
Tu stigmatizzi molto anche un'altra ossessione dei blogger: quella per le statistiche, i numeri...
Perché coltivare atteggiamenti narcisistici e ossessivi del sé?
«Io ho più link in entrata dei tuoi». Lasciate perdere, c'è già abbastanza allungamento del pene in rete. Il vero potenziale di Internet è la Coda Lunga come l'ha ben descritta Chris Anderson.
E' una questione cruciale per i freelance, i musicisti, ma anche gli attivisti e i movimenti. Internet ha bisogno di modelli economici sostenibili, andando al di là del dogma che bisogna cedere tutto gratis. Serve un modello non basato sui dati di traffico ma su micro-pagamenti peer-to-peer: moneta vera, non le briciole di Google.
Il manifesto, 1 marzo 2007 p. 13
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